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L’EDITORIALE – Parole e fatti della vecchiaia

La vecchiaia è in grado di offrire una prospettiva privilegiata dalla quale guardare se stessi e il mondo: la prossimità al più non esserci (e al non avere più nulla) toglie ogni peso e scioglie da ogni vincolo rendendo chiara e pulita la mente come un cielo che il vento spazzi dalle nubi: si scorgono nitidamente e in piena libertà le ‘cose’ buone, cattive e inutili, compresi valori e disvalori.

L’accesso a questa prospettiva non è dato dalla natura tramite il fisiologico passare degli anni, ma come la maggioranza delle cose umane, e in particolare quelle più rilevanti, dalla consapevole scelta del singolo ed è condizionato dal suo stato spirituale, psicologico, culturale ed emotivo.
Nei fatti c’è chi non considera mai di essere prossimo alla morte, che è una delle poche certezze della vita, e anzi fiducioso di sempre maggiori progressi scientifici, e in qualche modo esorcizzandola, se la nasconde sine die e c’è chi, viceversa, è sapienzalmente conscio come ogni giorno che fuori-esce dalla clessidra sia, al contempo, uno di più e uno di meno.

Gli antichi lo sapevano bene e senza farne drammi, a parte la nostalgia per la giovinezza, e Atropo (la più anziana delle Moire, le tre sorelle figlie della Notte), il cui nome significa colei che non si può evitare, era chi recideva a ognuno, venuto il suo tempo, il filo della vita.

Nel terzo secolo a. C. il Salmo 49(48) riprende il medesimo concetto in senso teologico (… per il molto che paghi una vita/mai che basti a fuggirne la fine…) e, più ancora, Gesù mette in guardia che per quanto si affanni (e potere e ricchezze abbia) nessuno può aggiungere alla propria statura un cubito in più.

La situazione può essere innovata solo pervenendo all’immortalità terrena, obiettivo cui taluni aspirano senza forse considerarne a sufficienza i molteplici e devastanti aspetti negativi.

Sta di fatto che l’adesione alla prima o alla seconda prospettiva rende significativamente diversa la visione dell’essere umano, mentre, su di un piano di mera necessità o casualità naturale, la differenza si assottiglia: poiché in un pugno di anni sia degli uni sia degli altri non ci sarà più alcuno e, a parte la diversa memoria (fugace o meno fugace) rimasta, ciascuno -sapiente o stolto e insensato- sarà già andato verso quello che volente o nolente cercava.

La lettera di Francesco papa, a lungo in consapevole bilico fra vita e morte e tuttora non del tutto uscito dal morbo, indirizzata al direttore del Corsera è espressione di una voce, Disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra, non diversa da quella dell’arcivescovo di Milano, Lasciate riposare la terra, nella sua ultima allocuzione alla città per Santo Ambrogio.

Voce che si leva in speranza contro qualsivoglia speranza come si addice a voce profetica pur sopraffatta dal frastuono cacofonico della più generale e ringhiosa confusione.

E sono parole di sapienza e saggezza (per meglio dire: di fede) che provengono non dalla forza, ma dalla fragilità di chi è nondimeno in grado di discernere e non intende celarsi o celare la realtà del mondo dietro a un velo illusorio di auspicabili convergenze, in particolare spirituali, che però non esistono.

Non sono mai soltanto parole: sono fatti che costruiscono gli ambienti umani. Possono collegare o dividere, servire la verità o servirsene.

E il bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso di responsabilità invocato come fattuale onde costruire gli ambienti umani prescinde infatti dal credere o non credere Dio, ma si riferisce in via diretta, analogamente peraltro a ben sette delle dieci parole bibliche, alla naturale sensibilità e comune coscienza di ogni essere umano.

In qualunque senso o cosa, esso, creda o non creda sul piano fisico-metafisico.

Sa bene, Francesco, che la fede è  in svantaggio rispetto all’idolatria e parla infatti della diplomazia e delle organizzazioni internazionali, ridotte al silenzio dalla protervia di attori dominati dall’hybris (le uniche regole e le uniche leggi sono quelle decise da loro, signori della guerra a capo di potenze imperiali che trasformano gli alleati preferendoli vassalli), cui dare nuova linfa e credibilità e del ruolo delle religioni, tutte perché ognuna alla ricerca di un Dio che è il medesimo Dio, in grado di riaccendere nei popoli il desiderio della fratellanza e della giustizia, la speranza della pace.

Solo un profeta -che non è un futurologo o indovino, ma chi conosce quanto è presso Dio e lo comunica a coloro che pur sa non ascoltano- può immaginare di scrivere e motivare oggidì parole del genere.

E come a un profeta (ne è testimone la storia) non viene mai data risposta nei fatti.

Quando va bene (un tempo il potere lo sopprimeva) lo si lascia parlare da solo, pre-occupandosi e affannandosi d’altro.

Non è quindi un caso che parole di riconoscenza e apprezzamento verso Francesco provengano, per i dodici anni di pontificato, da un altro vecchio, classe 1941, privo di poteri governativi, ma nondimeno fedele sebbene solitario rappresentante di uno spirito comune cui ben pochi oramai danno voce, il dodicesimo presidente della Repubblica il quale, a differenza dei molti, le parole sa usarle:

[…] Insieme a me, il popolo italiano Le è riconoscente per questi dodici anni nei quali ha offerto la più autentica testimonianza dei valori evangelici, in un servizio costante non soltanto alla Chiesa cattolica ma all’Umanità tutta.

[…] Vostra Santità ha portato un vibrante richiamo alla riscoperta della speranza, all’accantonamento di logiche di forza e di prevaricazione, a quelle istanze di rinnovamento dischiuse da un uso etico delle nuove tecnologie.

Mentre al livello internazionale sembrano affievolirsi le ragioni del Diritto e di una corretta articolazione della convivenza tra gli Stati, la Sua voce è e resta più che mai necessaria […].

 

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