HomeDialogandoL’EDITORIALE – Il tempo e le sue ombre: cronache di un 2025 inquieto

L’EDITORIALE – Il tempo e le sue ombre: cronache di un 2025 inquieto

Caro Diario, come ogni anno ho acquistato un nuovo quaderno nero con i bordi pagina rossi, come usava a scuola a mezzo del secolo scorso, e allora ti scrivo.

Fiducioso in particolare ora che, lasciato sotto vento un calendario bisesto, siamo entrati in anno considerato da maghi, fattucchiere, aruspici ed esperti vari perfetto giacché 45 al quadrato si scrive, appunto, 2025.

Cosa poi questo significhi, nei fatti, lo ignoro, ma riconosco la mia incompetenza.

In attesa quindi di non ancora precisi futuri miglioramenti, certo in corso come compulsivamente comunicatoci fino all’esaurimento dalla persecuzione dei season’s greetings, efficaci sostituti del Natale del Signore, c’è forse da dire che, allo stato, la lettura o l’ascolto mattutino dei media rimangono ancora tutto sommato un po’ ansiogeni e opportuna azione correttiva consiglia di posticipare a sera l’assunzione delle molteplici breaking news e dei proclami dei numerosi opinionisti: al netto del particolare che i morti quotidiani tali sono e tali rimangono sia prima sia poi, a sera c’è però quasi sempre la consolazione di accertare che almeno una parte delle cassandriche previsioni non si è (ancora) verificata e forse slitta pure (sine die), al pari di tante urgenti riforme.

C’è un tempo per ogni cosa e domani è un altro giorno e a ciascun giorno basta la sua pena.

Nel Bel Paese, a esempio, le regie ferrovie presentano saltuarie difficoltà che mettono in preoccupazione (e talora in ritardo happening) non pochi passeggeri, ma i vertici tendono a minimizzare: ogni giorno trasportano due milioni di passeggeri che partono e arrivano: sicché qualche sfrido ci sta pure. I politici e i competenti ne approfittano per questionare e le responsabilità, se mai ci fossero (ora più che alla manutenzione carente o mal fatta, qualcuno pensa al sabotaggio), vanno secondo tradizione in capo al malgoverno e all’insipienza di quelli che c’erano prima.

Non parliamo poi di altri appassionanti agoni come il terzo mandato (i limiti di tempo agli incarichi istituzionali hanno il dichiarato scopo di evitare l’usucapione del potere, non del tutto corrispondente allo sbrigativo squadra che vince non si cambia, motto ufficiale degli autocrati o aspiranti tali di tutto il mondo) e la separazione delle carriere dei magistrati (cui taluno preferirebbe, visto il grado generale di fiducia nella istituzione, la separazione dalla politica e dalle correnti).

Ma nel vasto mondo, fuori dalla nostra (ancora) provincia, le cose sono ancora più serie e lontane mille miglia dalle beghe domestiche.

La guerra fra Israele e Hamas dura da 15 mesi e, stando a quanto si legge, la tregua è ora firmata a opera di faticosa mediazione da parte di quei medesimi soggetti terzi che hanno negli anni finanziato, armato e sostenuto i contendenti.

Da informazioni non governative israeliane le brigate al Qassam avevano circa 30.000 combattenti e Idf ritiene di averne eliminati circa 17.000 a fronte di un totale di morti, dichiarato dalle autorità palestinesi, di oltre 46.000, ma secondo l’empirico Lancet molto sottostimato. Ognuno dà i numeri, ma la realtà è ben peggio dei numeri perché non conta le immense distruzioni spirituali e materiali e il fossato di odio reciproco ulteriormente allargato senza speranza.

E Hamas sta recuperando forze, nuove leve fra giovani senza futuro a fronte di viveri e aiuti in natura e denaro. Se si considera come è ridotta la Striscia di Gaza non ci si può stupire che l’arruolamento funzioni. Inoltre, quanti tunnel e cunicoli sotterranei siano ancora in mano ad Hamas non lo sa neanche Idf.

Il 47° presidente USA, con il consueto garbo, aveva minacciato Hamas, se non si fosse piegato alla tregua, di scatenare l’inferno: probabilmente non è bene informato perché per andare oltre quello che è (già) avvenuto nella Striscia rimarrebbe (forse) solo da sparare non tanto (anche) agli scudi umani, ma direttamente e subito a donne e bambini e poi, se li si trova, pure ai miliziani: dalle immagini dispensate dai media emerge uno scenario surreale di macerie a perdita d’occhio attraversate da gente in buona parte in armi.

La guerra continua, stanca e tenace, in Ucraina e anche questa è nelle attenzioni strategiche del 47° presidente, che secondo i bene informati aspira al Nobel per la pace (glielo si darebbe pure volentieri e non solo per Ucraina e magari, se possibile, evitando il bis dell’Afghanistan), il quale per ora si è ricreduto sulle 24 ore necessarie a chiudere il conflitto, suo cavallo di battaglia nella competizione elettorale, passando alla previsione di qualche mese: ma ci sta ugualmente.

La guerra continua, stanca e tenace epperò nel silenzio distratto dei media, nel resto del mondo dove mal contate ne sono in corso circa 25 definite ‘principali’ da Unicef (che stima un bambino su cinque essere in zona di conflitto), ma trattandosi di situazioni locali con interessi economici (per ora) marginali non interessano ai grandi della Terra: si aggiustino un po’ loro.

Conferma autorevole viene dalla élite di Davos che individua, appunto, in guerre e conflitti armati il principale rischio globale per l’economia: secondo un sondaggio del World Economic Forum (WEF) uno su quattro degli oltre 900 esperti intervistati nel mondo accademico, imprenditoriale e politico ha classificato i conflitti, compreso il terrorismo, come il rischio più grave per la crescita economica per il prossimo futuro.

Va da sé che non pare sia stata riservata particolare attenzione agli esseri umani (e rispettivi destini) coinvolti nei previsti/paventati conflitti, ma è attendibile che non fosse stato loro neanche domandato.

Vae victis, da Brenno (secondo Tito Livio, nel IV secolo a. C.) agli invasori e padroni di oggi e di domani.

C’è stata, nel tempo, qualche voce discorde fra i profeti e in particolare quello di Nazaret, ma non è stata data loro gran retta: di fronte alla scelta, la preferenza espressa è andata quasi sempre, e continua ad andare, a mamon.

Ora c’è appena stata, a Washington, l’intronazione del taikun (Treccani: il termine è giapponese e significa ‘grande dominatore’) accompagnato all’altare della Rotonda del Campidoglio, il medesimo preso d’assalto dai facinorosi repubblicani quattro anni or sono peraltro immediatamente graziati, dai tre altri super taikun più ricchi del mondo occidentale e il fatto che la democratica e civile cerimonia consista in un solenne giuramento potrebbe mettere un dubbio sul fatto che non tutti diano, come sovente accade, lo stesso significato e valore sia al termine in sé sia al contenuto della solenne promessa: “Giuro solennemente che eseguirò fedelmente l’ufficio di Presidente degli Stati Uniti e che, al meglio delle mie capacità, preserverò, proteggerò e difenderò la Costituzione degli Stati Uniti”.

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