L’EDITORIALE – Israele non è lì per caso
La frase del Segretario ONU Guterres, subito oggetto di pro e di contra (‘Gli attacchi di Hamas non nascono dal nulla’), peraltro di per sé rispondente al vero, va integrata con un’altra che, logicamente oltre che storicamente, la precede: ‘Israele non è lì per caso’.
Come per caso non è sorto neanche il sionismo che allo Stato d’ Israele ha dato origine.
Bisogna risalire ai tanti che, nel secolo scorso, hanno reso impossibile la vita agli ebrei -togliendola loro con oppressione e violenza– a cominciare dalla Russia zarista per arrivare alla Germania nazista. E a diversi altri Stati europei nei quali l’antisemitismo era comunque, e in buona parte ancora continua a essere, presente.
Dal seme dell’ingiustizia e della sopraffazione non escono che velenose infestanti della medesima specie e il non affrontarle perché eccessivamente spinose con il pensiero o l’illusione (il cui humus di base sono ignavia e attendismo riconducibili a dolo o colpa) che si risolvano da sé, tattica da tempo sperimentata e adottata in una quantità di aspetti della vita anche socio-politica, non produce soluzioni, ma progressivi peggioramenti fino al viluppo inestricabile.
Israele, semplificando all’essenziale, esce da chi sfugge alle devastazioni e omicidi di massa della Russia zarista (pogrom) e ai camini dei forni crematori volti al genocidio nella Germania nazista e il suo concepimento politico può trovarsi, già al tempo della prima guerra mondiale, nella lettera d’impegno (denominata poi Dichiarazione, 1917) di James Balfour, ministro degli Esteri britannico, a Lionel Walter Rothschild con un testo che già prende in considerazione (ottimisticamente, se non ipocritamente all’uso diplomatico) quell’aspetto destinato a divenire poi la principale e non mai risolta pietra d’inciampo:
Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni.
La Gran Bretagna puntava, in vista della spartizione dell’impero ottomano, alla Palestina e l’ebbe, ma non riuscì a governare un processo che, iniziato in modo sostanzialmente pacifico (le organizzazioni sioniste acquistavano larghe porzioni di territorio dai residenti arabo-palestinesi), andò poi progressivamente deteriorandosi sia per i comportamenti delle parti sia, e questo è forse il cuore del peccato originale non mai redento, per gli interessi, le posizioni e le trame dei numerosi Stati coinvolti, a vario titolo, nel critico svolgimento della lunga vicenda.
La quale non si è mai dipanata a parte le brevi speranze suscitate negli uomini di buona volontà, non molti, dagli Accordi di Oslo che portarono nel 1994 il Nobel per la pace a Peres, Rabin e Arafat.
La storia, in particolare se negativa, scorre veloce e il conflitto non mai risolto si è progressivamente radicalizzato in senso estremistico sia da una parte sia dall’altra (Hamas, da anni al governo della Striscia, ha combattuto e scalzato al Fath considerata troppo remissiva mentre il primo ministro israeliano, definito recentemente da Economist come l’uomo sbagliato al posto sbagliato, puntella una carriera politica ambigua e troppo prolungata, segno anche delle profonde divisioni in seno al Paese, con i voti dell’estrema destra ortodossa) e ai pubblici propositi della prima (distruzione di Israele ed espulsione dalla Palestina di ogni ebreo) si contrappone il pubblico proposito della seconda (distruzione di Hamas che, tuttavia, si cela fra due milioni di civili, in maggioranza giovani e bambini, rinchiusi in un rettangolo di 49 chilometri per 9).
Ambedue i propositi, cui peraltro sono ora avviluppati i consensi politici dei rispettivi sostenitori, costituiscono -oltre alla follia morale dei leader– un programma impossibile perché, da un lato, Israele ha diritto a vivere e, dall’altro, non si comprende come possa essere sradicato il terrorismo (Hamas o chi per esso) se non normalizzando in modo quanto più possibilmente equo una tragica situazione divenuta incandescente.
Ritorna così sul tavolo se non la risoluzione 181 dell’ONU del 1947 (ispirata da una previa intesa fra sovietici e americani), che prevedeva la costituzione di due Stati indipendenti e Gerusalemme sotto protezione internazionale, un qualcosa di simile posto che altra soluzione, come e. g. uno stato unico federale, sembra ancora più impraticabile e lontana a motivo della quantità e qualità di reciproco odio.
Almeno in quelle quote oltranziste, sfortunatamente ampie fra ambedue i popoli: gli uni delirano di eliminare i palestinesi e denominano la Cisgiordania come Giudea e Samaria, ma non ricordano che neanche all’apice storica della sua potenza, al tempo di Davide e Salomone, Israele riuscì a scalzare i Filistei, sconfitti sull’altopiano centrale, dalle città-stato costiere e gli altri delirano a loro volta nel volere la ricostituzione dello spazio come al tempo degli Ottomani.
Hamas, il 7 ottobre scorso, ha presentato alla controparte una studiata offerta che non poteva essere rifiutata se non, forse, da uomini dal cuore puro e dalle mani pulite disposti a pagare essi stessi con la vita (come Rabin dopo Oslo) la scelta di respingere la guerra nonostante la strage subita.
Così che la reazione militare sulla vita dei civili palestinesi ha dato soddisfazione ad Hamas fino al punto che uno dei suoi capi, parlando ai media dalla sede di Doha, ha candidamente e diabolicamente dichiarato che un bel numero di morti fra gli innocenti, vecchi e donne e bambini, avrebbe rinvigorito lo spirito rivoluzionario del movimento un po’ infiacchitosi, tanto che i piani mortiferi erano già pronti lo scorso anno.
E così in questo attuale contesto sembra appurato che fra i vari contendenti il più sano abbia, come si usa dire, la rogna.
Cosa poi, oltre ai proclami ufficiali, pensino di Hamas e del terrorismo palestinese i Paesi arabi fratelli è ben dimostrato dai rispettivi comportamenti pratici: i palestinesi devono continuare a essere confinati entro confini, quali essi siano, per evitare il rischio di portare anche altrove le non individuabili loro cellule cancerogene.
Gli egiziani non dimenticano i Fratelli musulmani né i giordani il settembre del 1970 con i palestinesi in Amman appoggiati dalla Siria.
Per cui libere le piazze di manifestare pro Palestina e baccagliare davanti alle ambasciate nemiche, ma poi ognuno a casa sua.
Inoltre tenere in ostaggio la questione palestinese e l’isolamento di Israele è evidentemente ancora stimata, da ciascuno per il proprio fine, una non negoziabile convenienza politica indipendentemente dal rischio.