HomeDialogandoL’EDITORIALE – La piazza e il conflitto: tra legittimità e strumentalizzazione

L’EDITORIALE – La piazza e il conflitto: tra legittimità e strumentalizzazione

La piazza si riempie, non solo in Italia, quando matura nei cittadini la percezione che il governo non faccia il suo mestiere o lo faccia contra.

L’evento si verifica normalmente nei sistemi democratici (e non è certo un male, anzi, perché rammenta al governo la fonte della sua legittimità) mentre nei sistemi diversi, a prescindere da come essi si referenziano, è molto rischioso per chi vi partecipa e, quindi, meno diffuso sebbene di grande valore.

La piazza non ha sempre e necessariamente il medesimo spirito o motivazione che la agita, ma di regola la medesima voce che, per la via più diretta, sintetizza l’obiettivo principale.

Inoltre la piazza, spazio pubblico e per definizione aperto, è a rischio di scacco sia da parte di agitatori, ai quali si aggiungono non rado soggetti in astinenza di circenses violenti da realizzare per propensione personale non coincidente con la maggioranza dei partecipanti sia da parte di politici in cerca di occasioni strumentali che mettano una pezza alla propria incapacità parlamentare di fare opposizione.

È quindi uno strano animale dagli umori generalmente instabili e pronti a scivolare che lo rendono ambiguo e pericoloso fino a diventare anche controproducente rispetto alle proprie originarie motivazioni e alla libertà di esprimerle che è, e deve essere, nella sostanza una prerogativa inalienabile dell’organizzazione pubblica liberal-democratica (in Italia fondata sugli articoli 17 e 21 della Costituzione).

Le manifestazioni dei pro-Pal non sfuggono a specchiarsi nelle considerazioni che precedono e infatti, visti i vari partecipanti, se ne possono individuare alcune correnti.

Correnti pacifiche cui stanno a cuore urgenze di interventi non solo verbali -e che con più di una ragione li contestano al governo-, ma effettivi e atti a interrompere una guerra le cui prassi hanno superato di gran lunga i confini non tanto dell’etica, di norma estranea alla guerra, quanto del diritto bellico (che già lascia il tempo che trova) per accedere a pieno titolo alla categoria della delinquenza.

A costoro si deve tuttavia ricordare che i criminali di guerra sono equamente distribuiti fra i governi delle due parti: un primo che ha dolosamente appiccato il fuoco ben conscio di cosa sarebbe avvenuto (attendibilmente in coordinamento, di cui è poi mancata la realizzazione, con alleati di identico proposito: eliminazione fisica di Israele) e che ha usato e continua a usare i civili del proprio popolo come scudi umani a perdere e un secondo che, destinatario continuo il proprio Paese di autorevoli promesse, più ancora che di minacce, di distruzione/eliminazione fisica, ha colto occasione per ritorcere la medesima distruzione fisica contro il nemico di sempre nella più assoluta indifferenza verso i civili del pari considerati a perdere.

Come è puntualmente avvenuto, e avviene, da ambo gli schieramenti in un quadro di odio alimentato da empietà di radicate origini religiose fondamentaliste.

Onde la manifestazione pro-Pal, il cui oggetto dichiarato è aiutare i palestinesi -peraltro tenuti, e certo non da oggi, in ostaggio da parte araba- deve per forza, se onesta e non malafede ipocrita e strumentalizzazione politica, indicare la responsabilità sia del governo di Tel Aviv sia di Hamas.

Anzi di più: richiamare con forte determinazione il governo al particolare, non secondario, che i due tradizionali nemici si fanno guerra in virtù degli appoggi e dei sussidi dei rispettivi alleati, in assenza o diversa determinazione dei quali la situazione sarebbe depotenziata e maggiormente gestibile in vista certo di un difficile, ma forse non impossibile componimento.

A Gaza conseguenze “disumane”, non basta che la Comunità internazionale dica che è inaccettabile quanto avviene e poi permetta che avvenga ha correttamente sottolineato Pietro Parolin nella sua ultima intervista in cui il riferimento alla Comunità è comprensibilmente generalista ed evita diplomaticamente di indicare i rispettivi diretti sponsor (mecenati & garanti) signori della guerra.

Che, e.g., il ricchissimo Qatar sia al medesimo tempo munifico e storico protettore & finanziatore di Hamas e contemporaneamente alleato USA tratteggia una sorta di triangolo delle Bermude la cui ombra dovrebbe inquietare e indurre un Paese libero e responsabile a prestare maggiore attenzione verso acquiescenti e scodinzolanti vassallaggi politici.

Agiscono poi, in piazza, correnti diversamente pacifiche, ma all’evidenza fiancheggiatrici di Hamas, che aspirano e approvano l’eliminazione fisica di Israele, scopo verosimilmente non condiviso da buona parte, se non dalla maggioranza, dei dimostranti e correnti vandaliche cui non pare vero cogliere l’occasione per rompere e distruggere e fermare quanto basta la vita altrui.

Così come correnti di soggetti politici che non riescono a fare opposizione al governo in carica in parlamento, che ne è sede istituzionale deputata, a causa di debolezze e reciproche liti, ma cercano di fare rientrare la propria incapacità dalla finestra e si accodano.

E altresì correnti di soggetti sindacali che in difficoltà (diciamo così) a esercitare la propria funzione precipua e in apnea di credibilità oltre che di iscritti si accodano del pari anche allo scopo di arginare in qualche modo l’aggressività dei propri concorrenti.

La motivazione postuma di uno sciopero chiaramente illegittimo perché proclamato senza preavviso e in violazione (peraltro subito dichiarata dalla Autorità di garanzia) di una specifica legge (146/1990) da parte del responsabile di quello che fu un grande sindacato è da manuale per interpretare lo spirito del tempo: l’obbligo del preavviso non sarebbe stato applicabile perché trattavasi di (a scelta) difesa dell’ordine costituzionale o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori.

È assente il coraggio di chiamare le cose con il proprio nome, vale a dire sciopero politico, che peraltro ha pur una sua logica, e contemporaneamente si presente come mezzo di fortuna sul quale saltano (o fare saltare) ospiti di varia natura non sempre desiderabili.

Ora il taikùn, dopo la magra in mondovisione sui tappeti rossi di Ancoraggio, ha scritto di suo pugno un protocollo di pace che ha riscosso unanime assenso, non è chiaro quanto obtorto collo, dagli arabi (non dai persiani che arabi non sono, ma protettori e istruttori di Hamas) e dal (non al completo) governo israeliano.

Il parlamento italiano, al dunque di votare la mozione di sostegno al piano USA, per non saper né leggere né scrivere e dare conferma, se mai opportuna, della attendibilità politica del Paese, ha votato/contro votato/si è astenuto fino a contare, nel corso della riunione, dodici o tredici posizioni diverse.

Con tutta la (forse) non eccessiva empatia e simpatia nei confronti del bisbetico soggetto statunitense tuttavia in molti di ogni bandiera, in particolare quanti di buona volontà e il pontefice e il francescano patriarca di Gerusalemme, confidano che il tentativo, sostenuto secondo l’uso da fiere minacce e arroganti ultimatum (O pace o morte. Precedentemente aveva dichiarato: O accettano o sarà l’inferno: si vede che, a parte il futuro immobiliare della Striscia, non è bene informato), abbia finalmente uno sbocco nella speranza come risulta, allo stato, dalle notizie provenienti dai colloqui in corso e dall’accettazione della prima parte del piano (i quattro punti iniziali).

Magari anche derubricando il concetto a un cessate il fuoco, ma immediato e, in particolare, a poi lavorare seriamente, non con la lingua, per realizzare qualcosa di analogo alle ipotesi della risoluzione 181 ONU del 1947 (a suo tempo respinta dagli arabi): devono potere vivere sia gli ebrei sia i palestinesi e in un futuro disgraziatamente non molto prossimo, ma umanamente necessario, placatisi odii e memorie, tornare alla convivenza.

All’esito della recente conferenza di New York volta a riprendere la soluzione a due Stati, al presente ancora negata dal governo israeliano e sepolta sotto le macerie di Gaza, dei 193 Stati componenti le Nazioni Unite, ben 157 (Santa Sede compresa che in ONU è Osservatore Permanente) riconoscono il diritto dei palestinesi di esistere come entità geografica e politica.

LMPD

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