L’EDITORIALE – Otto settembre
L’ 8 settembre compie 80 anni e queste note intendono onorare la memoria e il sacrificio di innumerevoli soldati italiani senza voce attraverso alcuni ricordi tratti dalle memorie di un giovane ufficiale alpino, Alberto Pedrotti Dell’Acqua, di stanza in Francia, a Boulouris.
L’aggravarsi della situazione filtra dai media del tempo: bollettini di guerra, radio, giornali (in particolare francesi) e la tensione è sempre più palpabile.
Il 5 settembre il comandante di battaglione convoca gli ufficiali e comunica -nelle posizioni italiane subentrando i Tedeschi- per l’alba dell’indomani la partenza verso Nizza dove i reparti giungono nel tardo pomeriggio del giorno 7. Il giorno seguente la prima notizia dell’armistizio con gli Anglo-americani è a cura di un vecchio signore francese che urbanamente avvicina il tenente Pedrotti Dell’Acqua nel centro di Nizza e gliela comunica augurandogli bonne chance. Il maggiore, subito raggiunto, informa che sta tentando invano di prendere contatto con i comandi superiori -Reggimento, Divisione, 4° Armata-, per avere disposizioni, ma niente da fare: nessuno è reperibile. Decidono quindi di loro iniziativa il rientro in Italia e non potendo usare la strada costiera, dato che il confine italo-francese è presidiato dai Tedeschi, si mettono in marcia (a piedi) e cominciano a salire verso Tenda. Ci sono anche altri reparti (fanti, bersaglieri, artiglieria) e le fotoelettriche degli automezzi illuminano nella notte i ripidi e stretti tornanti sterrati. In coda i guastatori del Genio, passato l’ultimo uomo, fanno saltare i ponti e di tanto in tanto ombre che escono dalle macchie informano dei movimenti dei boches, alle loro spalle. Salgono per tre giorni senza fermarsi, né per dormire né per mangiare, e bevono nei torrenti fino a quando, sul far della sera del giorno 11, passato il Colle di Tenda (mt. 1871 slm), arrivano in territorio italiano, a Borgo San Dalmazzo. Nel corso della interminabile salita si sono progressivamente liberati di ogni peso, sacchi, coperte etc, ma non delle armi e delle munizioni.
Su di un pianoro vicino al paese alcuni cucinieri hanno approntato enormi pentoloni di maccheroni bolliti e stracotti, ma i più preferiscono solo bere alla fontana: altro non va giù.
Giunge un’auto con la bandierina dell’alto comando sul parafango anteriore destro e ne scende il generale di Armata Vercellino (che, già in fase di rientro dalla Francia, ai sensi della fantomatica Memoria OP 44 del capo di stato maggiore, ove fosse stata comunicata per tempo, avrebbe avuto il compito tenere le valli Roja e Vermenagna e sbarrare ai tedeschi la via del Monginevro, del Moncenisio e del Frejus) il quale si arrampica sul tetto della vettura per farsi udire meglio e grida: Ufficiali, sottufficiali, soldati, miei valorosi ragazzi, devo comunicarvi che la 4° Armata è smobilitata; distruggete le armi, mettetevi in abito civile e tornate alle vostre case. Buona fortuna e che Dio ci assista.
I sergenti guardano stravolti e increduli il tenente, alcuni alpini piangono e reparti in piena efficienza di uomini e di armi si sciolgono sbalorditi e senza una parola di più.
Di seguito alcuni ben noti, ma non per questo meno utili, frammenti di storia ufficiale che hanno fatto da sfondo alle tante vicende.
Mercoledì 8 settembre, alle 17,30 (in Italia le 18,30), il generale Eisenhower dà notizia in inglese dell’armistizio di Cassibile (Siracusa) del 3 settembre ai microfoni di Radio Algeri. Poco più di un’ora dopo Badoglio, maresciallo d’Italia e capo del governo, fa seguire da Roma il suo analogo annuncio dai microfoni dell’EIAR:
«Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.
La richiesta è stata accolta.
Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.
Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.»
Sabato 11 settembre Radio Bari diffonde un proclama del Re, il primo dopo l’armistizio:
«Per il supremo bene della Patria, che è stato sempre il mio primo pensiero e lo scopo della mia vita e nell’intento di evitare più gravi sofferenze e maggiori sacrifici, ho autorizzato la richiesta dell’armistizio.
Italiani, per la salvezza della Capitale e per poter pienamente assolvere i miei doveri di Re, col Governo e con le Autorità Militari, mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale.
Italiani! Faccio sicuro affidamento su di voi per ogni evento, come voi potete contare fino all’estremo sacrificio, sul vostro Re.
Che Iddio assista l’Italia in quest’ora grave della sua storia.»
Dopo, quella stessa sera, segue anche un altro messaggio del maresciallo Badoglio:
«Italiani! Nell’annunziarvi la sera dell’8 settembre la conclusione dell’armistizio, io avevo precisato che le nostre forze armate non dovevano più compiere atti di ostilità contro le truppe anglo-americane, ma dovevano essere pronte a reagire contro chiunque le attaccasse. Ora le forze armate tedesche hanno violentemente occupato città e porti e svolto contro di noi azioni aggressive sia in terra che in mare e in cielo. Perciò ad ogni atto di imperio e di violenza si risponda di pari modo e con la massima energia.»
E sembra nessuno sappia che la Capitale, vanamente auto difesa anche da civili in armi fin dalla notte del 8 settembre, è già capitolata (la firma di resa è del pomeriggio del 10) e che l’esercito non c’è più.
Il regio esercito (circa un milione di militari in Italia e un altro milione fra Balcani e Francia), abbandonato al suo destino senza capi, nella maggioranza fuggiti senza combattere, e senza ordini si sbanda (a difesa di Roma c’erano sei divisioni con quasi 90.000 uomini vs 25.000 germanici) e il generale Jodl in un rapporto a Hitler sulla situazione strategica in Italia a seguito dell’8 settembre comunica le cifre della débâcle (7 novembre 1943):
«[…] Le Forze Armate Italiane in seguito all’armistizio dell’8 settembre abbandonate a sé stesse dagli alti comandi sono state completamente neutralizzate con un’operazione di polizia [ai soldati non fu riconosciuto lo status di prigionieri di guerra, ma -per disposizione di Hitler- di Internati Militari Italiani-Italienische Militärinternierte – IMI, ndr] contrassegnata da isolati episodi di resistenza. 80 divisioni disarmate, 547.000 prigionieri di cui 34.744 ufficiali, un bottino di 1.255.000 fucili, 38.000 mitragliatrici, 10.000 cannoni, 15.500 automezzi, 970 mezzi corazzati, 67.000 cavalli e muli, 2.800 aerei di prima linea 600 di altro tipo, 10 torpediniere e cacciatorpediniere e 51 unità minori della Regia Marina. Sono state reperite materie prime in quantità molto superiori a quelle che ci si aspettava alla luce delle incessanti richieste economiche italiane […]».
Nel 2006 il Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi disse:
«Non perdonai la fuga del re, anche se riconobbi che, andando al Sud, aveva in qualche maniera garantito la continuità dello Stato». (intervista a Marzio Breda sul Corriere della Sera del 18 aprile 2006)».
Chi scrive non ha la competenza né i titoli dello storico per cui non entra nel merito della diatriba fra esperti se con l’otto settembre sia morta o meno la Patria, si sia spento o meno il Risorgimento o quanto ne rimaneva o cosa e perché ne sia poi conseguito, ma crede che l’Italia fosse venuta meno già ventun anni prima, quando una monarchia pavida e insufficiente aveva consegnato il Paese, storicamente ancora immaturo nel processo di formazione nazionale rispetto a quando avvenuto nelle altre nazioni europee, al fascismo.
E condivide, da repubblicano, l’opinione di Benedetto Croce, liberale e monarchico (che nel referendum del 1946 votò per la monarchia), riportata da Denis Mack Smith:
«[…] Il re, dopo Mussolini, rimane il vero e il maggiore rappresentante del fascismo. Pretendere che l’Italia conservi il presente re è come pretendere che un redivivo resti abbracciato con un cadavere. Lui doveva andare via come atto di sensibilità morale. Il re si è congiunto corpo e anima al fascismo ed ha assunto una responsabilità maggiore di Mussolini. Mussolini era un povero diavolo ignorante, corto di intelligenza, ubriacato da facili successi demagogici, laddove il re era stato accuratamente educato e aveva governato un’Italia libera e civile. Il re sta tentando di ricostituire in Italia, nel Regno del Sud, un regime fascistico per proteggere la dinastia».
Inoltre si augura che la Repubblica, prima o poi prendendo piena coscienza di se stessa, elevi formalmente il giorno 8 settembre a occasione di memoria nazionale giacché per promuovere e conseguire la civiltà di un popolo non sono da ricordare solo i successi, ma -e sempre sulla pelle altrui- anche i comportamenti delle élites istituzionali, politiche e militari pro-tempore.
Memoria nazionale non significa unanimismo falso e peloso che, sull’argomento, non ci può essere per definizione: ognuno la pensi come vuole, ma almeno per un giorno all’anno tutti si guardino in silenzio allo specchio sullo sfondo della tragedia occorsa per mano di gente la cui etnia, come il verme della Geenna, non mai scompare.
Cara Italia,
oltre vent’anni di lungo servaggio e l’otto settembre 1943 ne è la fotografia non sbiadita, ma terminale e fedele:
… e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamia d’Italia era distesa
che fu concetta ne la falsa vacca; …