L’EDITORIALE – L’intervista di Rino Formica
In occasione del 25 luglio il non dimenticato politico socialista Rino Formica, più volte nella sua lunga carriera assurto a importanti cariche di governo, ha rilasciato una stimolante intervista a Qn (Quotidiano Nazionale) nella quale esprime considerazioni circa la così denominata riconciliazione nazionale, già richiamata fra gli altri dal ex presidente della Camera Luciano Violante (1996-2001) nel suo discorso d’insediamento rivolto alle forze della Resistenza e a chi aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana (1943/45).
“La pacificazione con i fascisti è avvenuta con l’amnistia di Togliatti. La pacificazione con il fascismo, invece, non c’è stata e non ci potrà essere mai” ha detto Formica il quale ha precisato l’inesistenza di una “pacificazione con dottrine che uccidono e distruggono la democrazia” e considerato fuorvianti i richiami, appunto, alla riconciliazione nazionale osservando a proposito di Violante di avere “la vista corta del magistrato inquirente che confonde le responsabilità individuali con il pericolo intrinseco a una dottrina reazionaria“.
Ora l’ufficio del magistrato è occuparsi di casi concreti in rapporto a fattispecie delineate a priori dalla legge dello Stato e se questo porti a confondere la responsabilità della singola persona con un pericolo dottrinale non risulta, di per sé, molto chiaro, ma l’argomento è marginale.
Tutt’altro che marginale, viceversa, è l’assunto della impossibilità di civile convivenza con dottrine che uccidono e distruggono la democrazia: questo concetto è basilare onde appare in tutta la sua logica consequenzialità l’altro passaggio dell’intervista: il contrasto al dispotismo si attua fin dal segnale di pericolo che l’illiberalità operi allo scopo di permeare il sistema politico della società civile.
La critica di Formica all’autocrazia politica, da combattere fin nella sua fase preparatoria, è quindi del tutto fondata e condivisibile.
Ma a onore del vero risulta un po’ sbilanciata rispetto alla realtà nazionale (e non), perché mette al centro della analisi unicamente il fascismo (l’osservazione che non si può chiedere alla destra di non fare la destra è invero controvertibile e valida allo stesso modo anche per la sinistra) e trae auspici gravidi di minaccia dall’essere attualmente in carica il primo governo di destra della storia post bellica, dopo ottanta anni.
Il sistema democratico prevede l’alternanza legittima e ove questa si realizzi per il tramite del voto anche chi perde la deve accettare, rivestire il ruolo di opposizione e operare di conseguenza in prospettiva del proprio turno.
In questa logica costituzionale va da sé che se l’esecutivo di destra aspirasse a virare verso l’illiberalità politica ecco che avrebbe titolo la mobilitazione antifascista.
Lo sbilanciamento culturale del porre il fascismo come nemico della democrazia emerge non dal fascismo (la qual cosa è verissima: esso è nemico della democrazia), ma dal non considerare come nello stesso ruolo ci siano parimenti l’ideologia comunista e altre ideologie intese a orientarsi comunque verso l’autocrazia, anche se in modalità criptate: tutti (o quasi) gli autocrati e aspiranti tali fingono di agire nell’ambito democratico e sovente ne adottano surrettiziamente almeno talune componenti.
La realtà è sempre un po’ più complessa delle generalizzazioni e se da un lato è vero che molti Paesi in Europa stanno conoscendo virate verso destra fino a qualche tempo fa probabilmente inaspettate (ma si tratta comunque di democrazie e si confida abbiano sufficienti anticorpi socio-culturali-politici per evitare il punto di non ritorno), è anche ugualmente vero che chi ha incendiato i confini europei è un comunista, sebbene formalmente post come oggi si usa nella comunicazione atta a espungere particolari spiacevoli dalla fedina, che ha collocato tutti post comunisti nei luoghi chiave della politica e dell’amministrazione del suo Paese irrigidendoli in modo da escludere, come nella passata URSS, qualsiasi possibilità di alternanza.
Né rileva che, a differenza dei precedenti -persecutori e mangia preti- gli attuali usino a loro vantaggio il rinato e consenziente sistema religioso ortodosso.
Se sorge fastidio ideologico a considerare nella sua sostanza e per quello che è l’attuale dirigenza politica russa, la si può anche etichettare come nazista e va bene lo stesso (è utile osservare, e.g., i simboli della Wagner e poi chiedersi cosa e chi ricordino): la realtà non cambia dato che gli estremi tendono a toccarsi quasi sempre fino a reciprocamente confondersi.
Dove invece l’ideologia politica comunista non è velata, ma dichiarata ufficialmente è in Cina (lasciando perdere la Corea del Nord, uno dei numerosi stati che sono riusciti nell’impresa di cancellare -non solo dal vocabolario- il valore di ben tre concetti contemporaneamente: repubblica, popolo e democrazia), Paese immenso e non marginale dato che rappresenta circa il 20% dell’economa mondiale (a fronte del 2% della Russia), in crescita anche come potenza militare e finanziaria e con una montante influenza geo-politica tale da attrarre (o mettere in prudente attesa) una quantità di Paesi emergenti.
Seguono le autocrazie come, e. g., Turchia e Iran, ispirate a contorni religiosi, ma non per questo meno efficienti (anzi) e, sparsa per il mondo, una varietà frammentata oltre che multipolare di Paesi in cui la questione democratica non si pone se non per essere elusa.
Di tal che quando si parli, e tanto più quando ciò avvenga autorevolmente, di democrazia e dell’impegno necessario alla sua conservazione a fronte dei pericoli delle sirene ideologiche avverse (è istruttiva una lettura dello studio annuale del The Economist: Democracy Index che lavora su cinque criteri: processo elettorale e pluralismo, libertà civili, funzione del governo, partecipazione politica e cultura politica) sarebbe auspicabile non avere la vista corta, ma partecipare in modo maggiormente obiettivo a un rafforzamento della civiltà e della sua cultura -sfortunatamente oggi in minoranza e pur anche in decrescita- nel senso più orizzontale possibile.