HomeDialogandoL’EDITORIALE – La lettera uccide, lo spirito vivifica

L’EDITORIALE – La lettera uccide, lo spirito vivifica

La vicenda del piccolo abbandonato nel novembre del 2020 a Ragusa ed ora richiesto da parte della madre naturale è, senza entrare nel merito di comportamenti inqualificabili, emblematica del tragico scostamento che si può realizzare, nel diritto, fra la giustizia e il giusto.
Già se accorsero, è noto, gli antichi latini come Terenzio (‘sommo diritto spesso è somma malizia’) e Cicerone (‘sommo diritto è somma ingiustizia’) i quali pur vivevano in un sistema giuridico essenziale, a portata di conoscenza del normale uomo alfabetizzato, e per così dire semplificato rispetto al nostro in cui sia giudici sia avvocati si sono specializzati per stare dietro, e non sempre con successo, alla imperante ipertrofia normativa (sono state stimate in vigore poco meno di 200.000 leggi).

Gli antenati segnalavano come l’applicazione meramente acribiosa e letterale del diritto -avulsa dalle circostanze del singolo caso cui la norma è applicabile e delle sue finalità- conseguenza della interpretazione strettamente e unicamente letterale (cui si contrappone l’interpretazione teleologica, da telos che significa scopo) fosse capace di produrre effetti nella realtà civile diversi quando anche non opposti ai fini della legge stessa: veri e propri disastri.

Concetto ripreso poi definitivamente dall’Apostolo nella seconda lettera ai Corinzi (3,6) con lapidaria espressione: ‘la lettera infatti uccide, mentre lo spirito vivifica (lìttera ènim occìdit spìritus àutem vivìficat)’ affermante la superiorità dello spirito che è vita (messaggio di Gesù) rispetto alla legge (che è lettera scritta e cioè formulazione comunque e sempre esteriore).

In questo caso l’interpretazione data dai giudici riprende bensì nella forma un elemento esistente nella normativa (mancata verifica del fatto che il bambino i suoi genitori naturali li avesse e che costoro potessero, o avessero potuto, ‘ravvedersi’, secondo l’asettico linguaggio burocratico), ma scaccia nella sostanza la finalità principale della legge che, viceversa, è proprio ed esattamente la protezione della creatura, dal medesimo linguaggio denominato ‘minore’ come se tutto fosse da considerare solo se misurabile in rapporto al tempo e a poco tempo corrispondesse poca importanza.

Ovviamente chiunque abbia avuto relazione con un bimbo di due/tre anni sa che la realtà è diversa, e di gran lunga anche, da quella che par tratteggiare la burocrazia: un piccolo di tre anni è (già) una persona ben determinata e psico-fisicamente delineata nel corso della sua crescita.

E’ pienamente e consapevolmente capace di comportamenti, memorie e, in particolare, di pensiero e affetti oltre che di prima parola (lo spiritus che la formalità della legge e dei suoi burocratici interpreti non rilevano ) che lo rendono già e da tempo persona: togliere un bimbo di tre anni da coloro che per lui sono a ogni effetto i genitori per darlo a una sconosciuta all’esito della dimenticanza, da parte del magistrato, di un passaggio formale è iniuria sol che si consideri il valore sostanziale dei due elementi fra i quali decidere la prevalenza: la dimenticanza di un accertamento (peraltro in presenza di una condanna per abbandono di minore) e la protezione di una vita già formata.

C’era anni or sono un interessante testo di uno scienziato statunitense, Da 0 a tre anni, che spiegava come l’evoluzione psichica e cognitiva dei piccoli fosse di particolare rilevanza anche proprio in quel primissimo periodo di vita che tradizionalmente si è portati a ritenere (per ignoranza, ma non sempre l’ignoranza, sebbene comprensibile, è anche accettabile) poco significativo e quasi fungibile.

Nella specie, cioè nei fatti concreti del singolo caso, il padre naturale ha abbandonato tre anni or sono in un sacchetto di plastica l’appena nato che solo per intervento altrui (e forse per divina misericordia perché non sempre lasciare un neonato nel sacco finisce bene), polizia e ospedale, è sopravvissuto.

La signora, madre partoriente in casa, afferma di averlo consegnato all’uomo padre naturale affinché lo portasse all’ospedale e lui, invece, inscenò un falso ritrovamento di sconosciuto neonato per cui ha già avuto una condanna penale.

La signora può ben essersi trovata in una situazione psichica gravemente deteriorata a causa della relazione e della nascita chiaramente non desiderata, per cui è anche comprensibile ogni sua azione anche se deviata (dichiara che non lo voleva abbandonare, ma farlo portare in ospedale), ma non è comprensibile che al tempo, una volta conosciuto come il suo desiderio non fosse stato esaudito, abbia lasciato passare così tanti mesi prima di farsi viva come madre naturale e chiedere di ri-avere un essere che, nei fatti, aveva acconsentito di lasciar andare per altra strada.

I figli, le creature, non sono cose e i genitori non ne hanno il possesso -come si riteneva un tempo e come ancora oggi ritengono quei degenerati che, convinti di possedere le donne, preferiscono ucciderle quando le circostanze della vita suggeriscono loro il sospetto di non riuscire a possederle più-, ma hanno, questa sì, la responsabilità di accompagnare consapevolmente la nuova vita nel suo sviluppo.

Con la quale vita non è dato il contrattare (come non è dato l’aborto come mezzo anticoncezionale) e, in particolare, farlo in condizioni di stato e di tempo che portano solo danno alla creatura protetta.

Da tutta questa burocratica vicenda, critica sotto il profilo umano e urticante sotto il profilo giuridico, e ancora anche (ingiustamente) pretermettendo l’umanità di coloro, la coppia, quel piccolo abbandonato hanno accolto e crescono, manca infatti tragicamente il protagonista e parte principale: proprio lui, il piccolo, ridotto a cosa, cosa da richiedere e rivendicare in proprietà.

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