HomeDialogandoL’EDITORIALE – Tra Costituzione e autocrazia: il dilemma di un’Italia in affanno

L’EDITORIALE – Tra Costituzione e autocrazia: il dilemma di un’Italia in affanno

Giorni or sono il ministro repubblicano della Difesa dichiarava, in un’intervista, che il suo sogno sarebbe un ‘grande patto istituzionale tra poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) per fare cessare la Guerra dei Trent’anni, modernizzare le struttura dello Stato e rendere l’azione del governo più rapida ed efficiente’.

Un sogno, in pratica, corrispondente a un vasto programma politico di innovazione e rifondazione del sistema democratico sempre più in affanno a fronte dell’autocrazia che da ogni parte lo bracca con crescente successo e fino al punto che filo-autocratici sono divenuti e lo diventano esponenti politici di rilievo in termini di voti se non di lungimiranza o di fedeltà repubblicana.

L’idea di un patto istituzionale da convenirsi fra i tre poteri- la separazione o divisione o reciproca autonomia dei quali, in norma positiva oltre che in filosofia politica, è uno dei principi giuridici fondamentali dello Stato di diritto e della democrazia liberale- provoca, in prima battuta, senso di vuoto e di desolazione a chi abbia presente che in Italia c’è già da qualche anno, dalla fine di dicembre 1947, una formale e sostanziale Costituzione.

Costituzione, come noto, dalla stragrande maggioranza di giuristi, politici, esperti et opinionisti considerata la più bella di tutte (nella retorica il Paese è senza dubbio avanzato e non da oggi) la quale puntualmente nella Parte II, Ordinamento della Repubblica, dedica al Parlamento il Titolo I (articoli da 55 a 82), al Presidente della Repubblica il Titolo II (articoli da 83 a 91), al Governo il Titolo III (articoli da 92 a 100) e alla Magistratura il Titolo IV (articoli da 101 a 113): che far più si potea?

Solo l’idea che questi tre poteri -e lasciando a parte il Presidente sul quale, grazie a Dio e quantomeno fino a quando la carica sia in capo all’attuale, non ci sono dubbi- composti da soggetti per definizione (già) sottoposti anzi tutto alla Costituzione dovrebbero addivenire a un patto per ri-prendere a funzionare correttamente sembra anzitutto (in primis dicevano un tempo) semplicemente una bestialità sotto il profilo sia giuridico sia civico ed etico e poi (in secundis, sempre quelli di un tempo) una diagnosi infausta non dissimile a quella che individua un cancro in metastasi.

Nondimeno è idea che, sfortunatamente, dice il vero e descrive in modo diretto una penosa realtà sebbene il rimedio auspicato (il patto istituzionale) non sia, ancora più sfortunatamente, praticabile.

Dunque, il Parlamento ha scordato la funzione legislativa autonoma ed è divenuto un passacarte di atti a iniziativa del Governo, il Governo non è né pronto né rapido nella sua azione (a parte quando scivola come per Mr. Libia) e dove all’estero si decide in pochi giorni qui da noi ci si impiega mesi e anni, la Magistratura è strabordata nella dinamica politica.

Sopra e fra tutto e tutti svetta la onnipresente contrapposizione ideologica che frena, impedisce e tiene fermi.

Ma i soggetti che agiscono nei tre poteri non sono diversi, in verità, dai molti che costituiscono la popolazione in genere, anche votante, e in realtà sono lo specchio dell’insieme da cui prendono avvio.

E’ un insieme caratterizzato da notevole percentuale (non totalità perché l’Italia sarebbe in situazione ancora peggiore) di persone che trascurano qualsiasi visione o prospettiva trascendente a favore di un liquido relativismo.

E quando si dice trascendenza il riferimento non è solo per il credente, che ritiene ci siano in Dio punti fissi esistenziali cui informare, pur con tutta la possibilità di errore insita nell’umana avventura, il proprio comportamento, ma anche per il non credente il quale però preservi una morale laica non mobile da traguardare al pari di un punto cardinale.

Laddove il relativismo è in sostanza la scelta individuale della propria maggior convenienza a prescindere.

Né, a livello etico, si possono migliorare o emendare abitudini, comportamenti, personali obiettivi e ispirazioni -ove siano fragilmente sottomesse a ideologie di comodo- unicamente accedendo, in qualsivoglia modalità (elezione, nomina, concorso, cooptazione etc), a uffici o cariche pubbliche: se il seggio è il fine e non il mezzo qualsiasi impegno è un giuramento tradito.

Se un soggetto moralmente inadeguato entra in Parlamento o in Magistratura o viene chiamato al Governo è dubbio che la carica lo trasformi in meglio, ma nel migliore dei casi diventerà possibile motivo di corruzione altrui.
Ed è quindi evidente che ove l’etica sostanziale e condivisa dalla maggioranza di un popolo scenda e rimanga sotto i livelli minimi di guardia o di sopravvivenza il destino di quel popolo è, nel medio-lungo termine, già segnato.

Così, per non andare tanto lontano, è imploso e. g. il romano impero che ciclicamente rinnova interesse e spirito di emulazione da parte del potente di turno.

Per tale motivo l’ipotesi di un patto fra enti ove allignino soggetti che già non rispettano neanche la Costituzione appare velleitario, riaprendo la vexata quaestio, non mai risolta, di chi poi sia mai in grado di vigilare sui custodi.

Il dubbio fu espresso da Giovenale, che però ce l’aveva con la dissolutezza delle donne del suo tempo, mentre prima di lui già si era espresso Platone il quale nel dialogo La Repubblica dà per scontato che i custodi dello Stato si astengano dall’ubriachezza per non avere bisogno di essere a loro volta vigilati: e lo scrive, ma in positivo: Ridicolo è infatti che un custode abbia bisogno di un custode.

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