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APOCRIFA – Fisiologia della tirannide

Dal 54° Rapporto Annuale del Censis sulla situazione del Paese, caratterizzata dalla apocalisse (alla lettera) pandemica, emerge la conferma dell’antico detto per cui la prima libertà cui l’uomo aspira è quella del bisogno: poco meno dell’86% dei concittadini ritiene che ‘il grado di protezione del lavoro e dei redditi è la chiave per la salvezza’ mentre osserva e subisce con crescente paura l’emarginazione dal mercato del lavoro delle categorie più deboli (donne e giovani), il declino reddituale di larghe fasce di autonomi e, a maggior ragione, la crisi del precariato in genere.

In particolare, la pandemia ha conseguenze che, oltre a drammatiche novità da gestire come tali (e. g. i cambi di abitudine, di vita e di lavoro), rivelano altresì la varia debolezza strutturale già presente nel nostro sistema (occupazione, scuola, sistema sanitario etc) e una generalizzata incapacità e impreparazione della classe dirigente politica, amministrativa e civile (coda molesta anche della progressiva abdicazione al senso del dovere e della responsabilità).

La società già prima profondamente divisa, ma in qualche modo ancorata all’esile equilibrio del sommerso, della rete familiare, dei bonus etc mostra ora fenditure ancor più profonde fra chi usufruisce di un reddito e lo tesaurizza e chi regredisce nelle difficoltà che aumentano.

Lo scenario generalizzato è costituito dall’incertezza e dall’insicurezza che genera diffusa paura dell’ignoto e ansia (sentimento prevalente del 74% onde quasi il 58% si dichiara disponibile a rinunciare alle libertà personali in cambio della tutela della salute e un 38,5% spingerebbe la rinuncia a diritti come sindacati, libertà di opinione etc in cambio di un maggior (e più certo) benessere economico.

Nei fatti ricompare quindi quel medesimo tradizionale binomio ‘sicurezza di vita e salute’ che connota l’omnicomprensiva invocazione liturgica verso il Signore da parte dei credenti.

In prospettiva socio-antropologica e politica la disponibilità a scambiare la libertà dal bisogno, onde pervenire a sicurezza di vita e salute, con altre forme di libertà, che appaiono degradate e non più efficaci per la tutela della vita singola e consociata, costituisce l’humus adatto per la cultura della tirannide in ambiente e micro-clima resi ideali da incertezza, insicurezza, paura e ansia.

I quali ultimi sentimenti aumentano a misura che il sistema democratico e la classe dirigente (che ancora ci sono sebbene incistati) continuino a palesare incapacità a provvedere in termini operativi diversi dal bivacco e dal giorno per giorno senza accedere a quel minimo di lungimiranza e proposizione strategica che, unitamente a competenza, chiarezza e serietà dell’impegno, sole possono aprire una realistica (e in parte almeno tranquillizzante) visuale di progressivo miglioramento.

Anzi, la cattiva democrazia agisce all’evidenza contro se stessa nei modi in cui improvvisati capi popolo pro-tempore e capetti senza arte né parte, ma solo provvisti di lingua sciolta e generalizzata incoscienza, aumentano e accavallano scintillanti promesse tanto irresponsabili quanto irrealizzabili e nascondono per converso le reali possibilità di azione in modo da tagliar fuori dalla dinamica operativa chi intendesse operare in pur difficile trasparenza, ma con quel realismo e quell’efficacia che lo scenario e le sue condizioni, allo stato, possono attendibilmente consentire e non oltre.

Chi è condizionato dal bisogno e dalla paura (vera) si aggrappa più facilmente a dare credito alle più svariate promesse di rapida soluzione dei problemi senza verificarne lo stato di realizzabilità, ma fermandosi alla figura e alla comunicazione del promittente il quale, per lo più, certo non è sciocco e anzi l’unica cosa che sa fare bene veramente è circuire il prossimo a suo uso e consumo.

E quindi costui in questa fase apparentemente brillante nei propositi, ma opaca nei contenuti effettivi, lavora certo più agevolmente di un concorrente che andasse a esporre la realtà senza mistificazioni  e proponesse, che so, alcuni anni di sacrifici per uscire dal pantano.

L’imbonitore politico raccoglie maggiori e più facili consensi fra i tanti che sono già scivolati all’indietro o che sono a rischio e confidano di essere soccorsi e risarciti in fretta dall’uomo della provvidenza apparso come (unico) salvatore della patria.

E la fortuna, se così può dirsi, che salva la democrazia incartata (nonostante la sua inettitudine) sta per lo più nel fatto che i vari imbonitori si equivalgano di fatto nella loro pochezza e che nessuno svetti sugli altri con le caratteristiche, appunto, del salvatore provvidenziale: perché è lì che si innesta il corto circuito in grado di bloccare definitivamente il sistema democratico.

Il problema diventa poi, come la storia insegna, dare il benservito al salvatore quando costui, esaurito lo slancio vitale (il passaggio da un governo democratico inetto a una tirannide operativa produce facilmente un periodo in cui si nota una differenza positiva del poi rispetto al prima che, lì per lì, dà o sembra dare ragione alla scelta  dell’investitura del salvatore), ci prende gusto, non dissimilmente dalla maggioranza dei soggetti politici, e inizia a vagheggiare il sempiterno: per se stesso e la sua corte di eletti.

Allora il nodo del ricambio al vertice, che (unico) protegge dall’entropia, diventa difficile da sciogliere, ammesso che qualcuno ci provi, e non devono portare troppa consolazione, sebbene postuma, le torme di oppositori e di anti e di contra che subito tracimano e insorgono allorché si verifica, per qualsivoglia motivo, la fuoriuscita del tiranno di turno: di anti e di contra beninteso ce ne erano certamente, ma di solito non mai nella misura che appare (dopo) e comunque non sufficiente a liberarsi da soli senza gli eventi, sovente tragici, del contesto esterno.

Tutto il mondo è paese e basta dare una scorsa alla carta geopolitica mondiale per rendersi conto che la tirannide non solo sopravanza la democrazia, ma altresì tende a non lasciare il proprio posto una volta radicatasi.

LMPD

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