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L’EDITORIALE – Naufragio di Cutro

Una vicenda tragica come il naufragio di Cutro -con vittime (in maggioranza afgani) superiori ai 68 morti malcontati per difetto poiché, a parte i dispersi che difficilmente sono approdati a nuoto per poi darsi alla macchia, in disgraziata aggiunta sono state rese orfane e vedove anche numerose famiglie- mette irrimediabilmente in luce una umanità che, come la Gallia di Cesare, si divide almeno in tre parti principali.

Una sono gli ideologhi a priori per i quali i morti, pochi o tanti ancor meglio, sono occasione per ingaggiare liti e manovrare in vantaggio contro avversari e nemici: costoro indipendentemente dai fatti specifici utilizzano senza riguardo qualsivoglia mezzo possa servire allo scopo e il loro (eventuale) rammarico è ipocrisia da coccodrillo.

Un’altra sono gli addetti ai lavori, politici e amministratori e governanti e militari e magistrati etc, per i quali, dovendosene occupare a motivo dei propri uffici e per di più davanti all’opinione pubblica, qualsiasi vicenda, soprattutto se tragica, è innanzi a tutto una grana densa di potenziali nefasti e, peggio ancora, un incubo per il rischio di rimanere con il cerino fra le dita.

L’ultima sono i cittadini senza nome e senza voce, che non vanno né sulla stampa né in televisione, per i quali la pietà verso sconosciuti che tutto hanno rischiato, e perduto, pur di vivere non si disgiunge dal pensiero che, su quel relitto navigante, avrebbero potuto esserci loro con mogli e bambini: la differenza è solo un battito d’ali e invece di nascere a Roma, nella Città eterna, o a Milano, nella locomotiva del Nord, ecco che si viene al mondo in uno dei tanti luoghi della Terra da cui poi si cerca solo di fuggire.

E anzi sono questi ultimi luoghi così numerosi e così tanto estesi che è più facile nascere là che qua.

Questo con buona pace di chi, stando al potere e credendo di potere, non ha nemmeno il buon senso di verificare le parole prima di dirle. In particolare si potrebbe anche ricordare, prima di dare giudizi non richiesti, che il termine disperazione significa assenza di speranza, la medesima che conduce anche al suicidio.

Oppure non ha la saggezza di tacere perché, indipendentemente da ogni circostanza, quantomeno al rispetto per il prossimo -e in particolare un prossimo colpito dalla sciagura- tutti sono obbligati e senza eccezione.

In particolare quelli che stanno in alto.

E i comportamenti cui si è costretti ad assistere mettono il dubbio che manchi e grandemente nuoccia alla formazione umana di taluno uno stage professionalizzante in Afghanistan o in Siria, ovviamente non dietro alla scrivania del potere, piccolo o grande che sia, oppure dentro l’auto di servizio. Ma in mezzo al popolo e come uno dei tanti.

Ovvero difetti quantomeno una crociera nel Mediterraneo su un natante in buone condizioni di galleggiabilità, con il beneplacito di quelli di Frontex, condotto con mano ferma da un comandante turco su di un mare appena increspato.

Ora è noto che aumentare il sapere aumenta proporzionalmente, e talvolta anche di più, la preoccupazione e l’ansia del vivere che è già di per sé non sempre agevole, ma venire anche a conoscere che, grazie alla tendenziale farraginosità dell’organizzazione italica dei pubblici poteri, nella gestione di una vicenda consimile sono coinvolti ben tre dicasteri della Repubblica fa piovere sul bagnato.

Si tratta degli Interni (pubblica sicurezza, immigrazione e asilo –absit iniuria verbis– cui riferiscono Prefetture, Questure e Forze dell’ordine), Economia e finanze, alias MEF (cui riferisce la Guardia di Finanza salvo, sembra, per le funzioni di pubblica sicurezza in mare ancora sempre degli Interni), Infrastrutture e trasporti, alias MIT (cui riferisce Capitaneria di porto-Guardia costiera), ciascuno con proprie competenze che si interlacciano con quelle altrui in uno scenario irto di sigle, acronimi e cabine di regia.

Il procuratore di Crotone ha detto alla stampa (la Repubblica) che “sta venendo fuori un sistema smagliato, probabilmente in perfetta buona fede, dove ciascuno fa il suo, ma che alla fine si traduce in un ‘vado io, vai tu’ che alla fine può portare a situazioni tragiche come questa“.

Vedremo; in particolare per quanto concerne la buona fede.

Alla Capitaneria di porto-Guardia costiera, Corpo della Marina Militare, competono le operazioni di salvataggio in mare ai sensi della ‘Convenzione internazionale sulla ricerca e salvataggio marittimo’ (evento SAR, acronimo di search and rescue) siglata ad Amburgo il 27 aprile 1979 ed entrata in vigore il 22 giugno 1985.

Dal Sito della Guardia costiera si impara: “Il Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto ha il compito di assicurare l’organizzazione efficiente dei servizi di ricerca e salvataggio nell’ambito dell’intera regione di interesse italiano sul mare, che si estende ben oltre i confini delle acque territoriali, e assume per l’effetto le funzioni di I.M.R.C.C. (Italian Maritime Rescue Coordination Centre), Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo, cui fa capo il complesso delle attività finalizzate alla ricerca e al salvataggio della vita umana in mare, mediante l’impiego della componente aeronavale del Corpo delle Capitanerie di porto, con l’eventuale ausilio di altre unità di soccorso militari e civili.  L’I.M.R.C.C. – funzionalmente individuato nella struttura della Centrale Operativa del Comando Generale – mantiene i contatti con i centri di coordinamento del soccorso degli altri Stati per assicurare la collaborazione a livello internazionale prevista dalla Convenzione di Amburgo”.

La Capitaneria di porto-Guardia costiera è, allo scopo, dotata di natanti specifici, motovedette classe 300, in grado di affrontare il mare in burrasca, fino a forza 8 (su una scala di 9).

Ai sensi delle direttive sulla ‘Difesa dei confini’ (emanate a partire dal Conte 1) essa esce in missione SAR su richiesta di aiuto o segnalazione.

Al comparto di specialità del Corpo della guardia di Finanza è affidata in via esclusiva la responsabilità operativa nell’azione di sorveglianza in mare, ai fini del contrasto all’immigrazione clandestina, e quindi se un’imbarcazione con migranti diretta in Italia viene individuata e la Guardia Costiera non valuta che sia in condizioni di dovere essere soccorsa, a occuparsene è la Guardia di Finanza medesima, competente in materia di “contrasto all’immigrazione clandestina” e volta alla cattura degli eventuali scafisti e trafficanti di persone a bordo dell’imbarcazione.
E infatti il primo fascicolo aperto dalla procura della Repubblica di Crotone riguarda esattamente la fattispecie di cui sopra.

Alla Guardia di finanza competono le operazioni di polizia in mare e ai sensi delle vigenti regole di ingaggio sembra emergere e potersi capire come le operazioni, ove non dichiarate SAR dal Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo (I.M.R.C.C.) di Roma, siano condotte dalla medesima Finanza fino a quando, nel caso, non diventino evento SAR e come tali passino in capo alla Guardia costiera medesima.

Peraltro l’analitico “Piano marittimo nazionale per i soccorsi” emanato nel 2022 dalla stessa Guardia costiera a istanza del ministro pro tempore Paola De Micheli, che indica come priorità il salvataggio di chiunque, presenta a giudizio di qualcuno talune difficoltà come il passaggio dalla fase di incertezza (Incerfa: situazione nella quale si può dubitare della sicurezza di una persona, di una nave o di un altro mezzo), che nel caso concreto corrisponderebbe alla segnalazione di Frontex, alla fase di allertamento (Alerfa: situazione con l’obbligo di effettuare indagini appropriate per ottenere notizie dirette sullo stato di sicurezza del mezzo navale o delle persone in pericolo). ove non si riesca a stabilire un contatto con la barca ed eliminare il dubbio.

Nella DOCUMENTAZIONE di questo numero è pubblicato per intero il “Piano marittimo nazionale per i soccorsi”.

Si aggiungano gli incroci ministeriali e altre difficoltà accennate, da ultimo, dal comandante della Guardia costiera di Crotone, che stando (forse) alle norme avrebbe avuto titolo a intervenire: “Sarebbe troppo lungo specificare quali sono le nostre regole di ingaggio, anche perché spesso non promanano dal ministero a cui appartengo, ma da quello dell’Interno”.

Nel frattempo, dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur e così bambini, donne e uomini sono andati a fondo.

Nella specie della barca turca, di cui non si conosce il numero degli imbarcati, sobriamente segnalata da Frontex che non pare abbia fornito molti particolari e a domanda ha dato anche una risposta sprezzante, se ne è occupata la Guardia di Finanza la quale nella notte fra sabato e domenica è pur uscita in mare, ma è dovuta rientrare perché il mare forza 4 non consentiva ai suoi natanti fatti per l’intercetto la navigazione.

Figurarsi quindi come doveva navigare in sicurezza il barcone dei profughi.

In ogni modo chi o coloro che avrebbero potuto e dovuto decidere diversamente non lo hanno fatto, ora si dice anche che dai dati disponibili non se ne vedeva ragione fino al punto che il primo allarme alla Guardia costiera sembrerebbe arrivato alle 4,30 di mattina da parte di qualcuno sulla spiaggia (come abbia fatto colui a quell’ora a vedere la barca in difficoltà è una bella domanda), e speriamo che almeno la magistratura inquirente riesca a verificare il chi-come-dove-perché del sistema che non ha risposto.

E che qualcuno, uno o più e non l’ultima ruota del carro, sia chiamato a rispondere e, se del caso, a cambiare poltrona o mestiere.

Nel frattempo l’irreparabile è accaduto, con carabinieri e finanzieri disposti sulla spiaggia in attesa per l’intercetto degli illegali i quali si sono poi buttati in acqua a soccorrere quelli che ancora si muovevano e a raccogliere i cadaveri galleggianti, e i cittadini assistono attoniti al consueto scaricabarile, prova quantomeno di mancanza di un coordinamento che -visto il suo scopo- non è solo burocratico, fra gli svariati poteri che li governano e le autorità che li proteggono.

E qualcuno, fra questi cittadini, se ne vergogna anche profondamente.

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