L’APOCRIFA – Passato e futuro
“Anche se concedo queste elezioni, non concedo la lotta che ha alimentato questa campagna” ha detto la candidata democratica non appena è emersa la débâcle elettorale e aggiunto “Sono così orgogliosa della gara che abbiamo corso e del modo in cui l’abbiamo corsa […] Ascoltatemi quando dico che la luce della promessa dell’America arderà sempre luminosa. A patto che non ci arrendiamo mai. E finché continuiamo a combattere”.
E il presidente, a giorni former president, non è stato da meno esortando a rimanere ottimisti e tenaci: “Le battute d’arresto sono inevitabili, ma arrendersi è imperdonabile […] Tutti veniamo abbattuti, ma la misura del nostro carattere, come direbbe mio padre, è la velocità con cui ci rialziamo“.
Un tipico esempio di savoir-faire anglosassone doc che dalle nostre parti, in maggioranza più inclini allo schiamazzo e all’insulto, suona forse un po’ desueto e già da tempo archiviato fra ipocrite abitudini di un passato troppo formale. Ed è possibile che una certa dose di ipocrito formalismo ci sia anche nel comportamento di queste figure che escono comunque di scena sotto il peso di qualche aspra considerazione connessa, al di là delle parole di rito, al fatto di avere condotto la propria parte e i propri elettori davanti a un futuro di significativa impotenza politica (oltre alla Casa Bianca, perso il Senato e in apnea alla Camera).
Chi scrive non è un esperto e si guarda bene dal fare come coloro i quali, all’indomani delle partite di calcio e in particolare della nazionale, hanno tutti (Se c’ero io…) la ricetta per non perdere, ma, interessato politicamente e culturalmente al sistema democratico, ha cercato di farsi un’idea degli avvenimenti leggendo cosa hanno detto o scritto persone coinvolte in loco.
Si procede anzitutto dal rimarcare quanto i leader dem abbiano sottovalutato l’avversario fino al punto da augurarsi (e taluno dice da cercare di farlo preferire) che prevalesse rispetto ad altri candidati GOP (come a esempio Nikky Haley) che erano ritenuti più ostici in prospettiva della corsa finale.
Avversario regolarmente presentato e disdegnato come impresentabile, in teoria sulla base di talune evidenze, ma in un magma culturale molto scivoloso se anche colui che ora sarà suo vice, al tempo non ancora in politica, lo aveva definito un ‘totale imbroglio’ paragonando lui e il suo Maga a una droga dannosa.
In campagna elettorale il concorrente può certo essere demonizzato, ma le parole (anche in democrazia) non sono sufficienti soprattutto se vengono percepite come di genesi elitaria e identitaria.
Secondo analisi del New York Times la stragrande maggioranza delle oltre tremila contee della nazione aveva già preso a virare verso destra da quando fu vinta la campagna dem del 2020, orientamento non intercettato o interpretato dagli onnipresenti sondaggi né tantomeno preso in considerazione dagli strateghi che hanno scelto di enfatizzare il diritto all’aborto, la difesa di immigrati illegali, il LGBTQ+ (e diritti dei transgender), minoranza molto attiva pari a circa il 10% della popolazione, e il sistema democratico in sé contro i barbari, dando per scontato e ripetendo come un mantra i tanti successi conseguiti dalla economia.
Laddove da molte parti, e in particolare dagli ambienti dei lavoratori (ceto povero e ceto medio in assottigliamento costante) emergevano più urgenti preoccupazioni, appunto, in tèma di economia e di immigrazione.
Ma il problema non era solo trovare messaggi e comunicazioni efficaci contro un avversario che si muoveva avendo individuato il filo rosso che conduce alla miniera dei consensi e che iniziava ogni comizio con una domanda retorica: “State meglio ora o stavate meglio prima?”
In ogni caso la campagna di Harris, e i democratici più in generale, non sono riusciti a trovare un messaggio efficace contro Trump.
Sanders, e.g., indipendente progressista di lunga data, ha duramente criticato la mancanza di attenzione della campagna dem sulle preoccupazioni economiche degli elettori delle classi meno abbienti cui fa viceversa riscontro, ma ambiguamente, l’influenza sul partito dei maggiori donatori, di coloro che lo finanziano e lo fiancheggiano (ricchi e star) e dei soggetti che a vario titolo ne traggono utili come i molti consulenti i quali contribuiscono ad aumentare negli elettori il sospetto di non essere loro al centro dei pensieri di chi conduce e condurrà la politica del partito.
Come il sospetto di una politica tendenzialmente identitaria, partito di ricchi con amici ricchi e riccastri, è stato non paradossalmente sottolineato dalla tutela dei veterani alla Obama, il quale si presentava alle riunioni senza cravatta e in maniche di camicia, mentre l’altro era sempre in uniforme dai capelli ranciati in giù salvo quando si faceva fotografare (di rado) mentre friggeva le patate con il grembiule da lavoro in improbabili scenografie ad hoc.
Sta di fatto che il Partito Democratico è stato lasciato dai lavoratori bianchi e poi dai latinos e poi dai neri e poi dagli arabi e poi fin dagli ebrei.
La domanda dell’articolista quindi è: il Partito Democratico troverà la capacità di trasformarsi, considerato in particolare chi lo finanzia e il suo attuale entourage?
Secondo altri osservatori, i dem passano troppo tempo a cercare, nel politicamente corretto e nel woke, di non offendere nessuno e di essere (a parole) inclusivi piuttosto che essere espliciti e diretti in merito alle criticità e ai problemi che molti, o troppi, americani devono nella realtà affrontare.
La brutalità dell’approccio, percepito come reale, prevale presso chi ha paura rispetto all’approccio culturale o sistemico.
Le fasce più deboli economicamente e più in difficoltà della popolazione, quelle meno rumorose delle minoranze, ma ben più alte di numero si sono volte negli USA a un super riccone, peraltro con ombre e difetti, che ha promesso loro, e si vedrà come e quanto, di aiutarli a uscire dalla palude che i dem o negano esista o nei loro comportamenti appaiono sottovalutare.
È un migrare, in prima approssimazione, da sembrare quasi contro natura, alla luce quantomeno di parametri normalmente ancora usati (come destra/sinistra, conservatore/progressista), sebbene non sia limitato alla sola esperienza USA, ma avvenga da tempo anche in Europa.
E questo dovrebbe o potrebbe forse indurre a ripensare a categorie di pensiero e di comunicazione, prima ancora che di comportamento socio-politico e amministrativo, cui ancora ci si rimanda/riferisce forse più per abitudine e indipendentemente dal fatto che esse si siano o si stiano modificando nelle rispettive sostanze.
Un tempo non c’erano destra e sinistra, ma patrizi e plebei, patrones e clientes (a parte gli schiavi) o nobili/clero e villani e in seguito vennero le classi di centro che diedero, anche, una certa collocazione sia alla destra sia alla sinistra.
Nel momento in cui la tradizionale tripartizione (chiamiamola così) scomparisse, come sembra stia accadendo in forza della radicalizzazione, tornerebbe la basilare bipartizione nell’ambito della quale i più deboli, da che mondo è mondo, cercano naturalmente e comprensibilmente (e a prescindere, beninteso, dal processo conservazione/progresso giacché per il debole suo progresso è acquisire migliori condizioni e conservarle) protezione e vantaggi presso chi la può loro dare o è più convincente a prospettarlo o è più bravo ed efficace a illuderli.
Uno dei (forse pochi) reali vantaggi del sistema democratico è la rotazione o alternanza nell’esercizio del potere, quale condizione condivisa e accettata a priori da tutti i soggetti agenti, e suo corollario (dato che il predominio del mero numero non è mai -e per sfortuna- garanzia anche di sostanza e di merito) la possibilità di ricambio nell’esercizio del potere.
Oltre che limitazione istituzionale ed equilibrio sistemico del potere in sé e per sé, l’alternanza è altresì garanzia che i soggetti eletti siano sostituibili senza dovere attendere la loro morte o ricorrere alla violenza per detronizzarli.
A patto che il sistema democratico non si disassi verso l’entropia e così metta a rischio di non ritorno la sua vitalità e, al contempo, di corruzione la sua stessa natura la quale, come la storia mostra, vira allora facilmente nella tirannide di cui è già piena la Terra.